La cosiddetta digital transformation è, secondo Wikipedia, "un insieme di cambiamenti prevalentemente tecnologici, culturali, organizzativi, sociali, creativi e manageriali, associati con l'applicazione della tecnologia digitale in tutti gli aspetti della società umana".
Fin qui tutto giusto. Ma cosa significa davvero? E, soprattutto, perché viene spesso presentata come il mantra salvifico per aziende, mercati e società?
Iniziamo dalle basi: trasformazione significa cambiamento. E cambiare significa modificare abitudini, comportamenti, modelli organizzativi, di business, di comunicazione. Della nostra vita, in definitiva.
Cambiare, però, non è semplice. È faticoso, culturalmente impegnativo, organizzativamente destabilizzante, economicamente oneroso.
Spesso cambiare significa formarsi, fare formazione per sé e per i propri collaboratori. E formazione richiede tempo, denaro e – forse la risorsa più scarsa – volontà.
La tecnologia, in questo contesto, non è la protagonista, ma l'abilitatore. Un acceleratore che amplifica e sostiene la trasformazione negli ambiti culturale, organizzativo, sociale, creativo, manageriale. Ma il punto di partenza restano sempre le persone.
Se proviamo a trasformare prima i mercati e poi chiediamo alle persone di adattarsi, falliamo. Se distribuiamo strumenti digitali a micro-imprese solo per "tamponare" crisi come il COVID, senza coltivare una cultura d’impresa attuale, falliamo di nuovo.
Il cambiamento è in atto. È già qui. Ma la domanda è: vogliamo subirlo o guidarlo?
Se lo lasciamo in mano alle grandi corporate, con l’adozione a cascata di soluzioni e tecnologie vendute come panacee, finiremo tutti a parlare su Clubhouse… ma di cosa, esattamente?
Forse dovremmo smettere di parlare di digital transformation e iniziare a parlare di cambiamento. Un cambiamento che deve essere innanzitutto formativo e strutturale: delle organizzazioni, dei mercati, dei modelli di consumo.
Non possiamo essere attori passivi. Non si tratta di imparare una lingua in cinque anni. Si tratta di un cambiamento che sta trasformando ogni aspetto dell’esistenza umana – e lo sta facendo a una velocità vertiginosa.
La tecnologia ha un ruolo chiave: collega, accelera, intensifica. Ma abbiamo deciso di partire da lì, invece che dalla cultura.
Il risultato? Passiamo 47 anni della nostra vita davanti a uno schermo. Smartphone, laptop, smart TV: 408.431 ore totali, secondo una ricerca pubblicata da Repubblica.
Eppure, più della metà degli intervistati considera quel tempo "produttivo". Il 59% ammette che non saprebbe come impiegare il proprio tempo senza uno schermo. Il 21% prova ansia a stare lontano dal telefono.
La sensazione è che qualcosa ci sia sfuggito di mano. E forse stiamo continuando a sbagliare.
Eppure, abbiamo davanti un’occasione straordinaria: cambiare davvero. Cambiare il nostro rapporto con il lavoro, l’istruzione, i prodotti, i servizi, la tecnologia, la vita.
Questo cambiamento dobbiamo metabolizzarlo, indirizzarlo. La tecnologia può accompagnarci, ma dobbiamo essere noi a guidare.
Viviamo in un momento delicato. Un momento in cui la riflessione può (e deve) contare più dell’azione. Abbiamo costruito stili di vita insostenibili: per noi, per l’ambiente, per le comunità, per il lavoro.
Mentre ordiniamo una pizza dal divano, milioni di persone non hanno accesso all’acqua potabile. Il disequilibrio è evidente. E riguarda anche come stiamo consumando risorse e territori.
C'è una soluzione? Forse sì: le nuove generazioni.
Noi, troppo spesso, vogliamo solo crescere in fatturato, vendere di più, lavorare di più, comprare di più. Le nuove generazioni, invece, stanno mostrando un sentimento diverso: condividono, si informano, si organizzano, viaggiano, agiscono.
Forse è lì che dobbiamo guardare. Forse è da lì che possiamo imparare.
👉 Contattaci se vuoi approfondire questi temi, portare una nuova cultura del cambiamento nella tua impresa, o semplicemente riflettere insieme su come affrontare la trasformazione digitale in modo più umano e sostenibile.
Fin qui tutto giusto. Ma cosa significa davvero? E, soprattutto, perché viene spesso presentata come il mantra salvifico per aziende, mercati e società?
Iniziamo dalle basi: trasformazione significa cambiamento. E cambiare significa modificare abitudini, comportamenti, modelli organizzativi, di business, di comunicazione. Della nostra vita, in definitiva.
Cambiare, però, non è semplice. È faticoso, culturalmente impegnativo, organizzativamente destabilizzante, economicamente oneroso.
Spesso cambiare significa formarsi, fare formazione per sé e per i propri collaboratori. E formazione richiede tempo, denaro e – forse la risorsa più scarsa – volontà.
La tecnologia, in questo contesto, non è la protagonista, ma l'abilitatore. Un acceleratore che amplifica e sostiene la trasformazione negli ambiti culturale, organizzativo, sociale, creativo, manageriale. Ma il punto di partenza restano sempre le persone.
Se proviamo a trasformare prima i mercati e poi chiediamo alle persone di adattarsi, falliamo. Se distribuiamo strumenti digitali a micro-imprese solo per "tamponare" crisi come il COVID, senza coltivare una cultura d’impresa attuale, falliamo di nuovo.
Il cambiamento è in atto. È già qui. Ma la domanda è: vogliamo subirlo o guidarlo?
Se lo lasciamo in mano alle grandi corporate, con l’adozione a cascata di soluzioni e tecnologie vendute come panacee, finiremo tutti a parlare su Clubhouse… ma di cosa, esattamente?
Forse dovremmo smettere di parlare di digital transformation e iniziare a parlare di cambiamento. Un cambiamento che deve essere innanzitutto formativo e strutturale: delle organizzazioni, dei mercati, dei modelli di consumo.
Non possiamo essere attori passivi. Non si tratta di imparare una lingua in cinque anni. Si tratta di un cambiamento che sta trasformando ogni aspetto dell’esistenza umana – e lo sta facendo a una velocità vertiginosa.
La tecnologia ha un ruolo chiave: collega, accelera, intensifica. Ma abbiamo deciso di partire da lì, invece che dalla cultura.
Il risultato? Passiamo 47 anni della nostra vita davanti a uno schermo. Smartphone, laptop, smart TV: 408.431 ore totali, secondo una ricerca pubblicata da Repubblica.
Eppure, più della metà degli intervistati considera quel tempo "produttivo". Il 59% ammette che non saprebbe come impiegare il proprio tempo senza uno schermo. Il 21% prova ansia a stare lontano dal telefono.
La sensazione è che qualcosa ci sia sfuggito di mano. E forse stiamo continuando a sbagliare.
Eppure, abbiamo davanti un’occasione straordinaria: cambiare davvero. Cambiare il nostro rapporto con il lavoro, l’istruzione, i prodotti, i servizi, la tecnologia, la vita.
Questo cambiamento dobbiamo metabolizzarlo, indirizzarlo. La tecnologia può accompagnarci, ma dobbiamo essere noi a guidare.
Viviamo in un momento delicato. Un momento in cui la riflessione può (e deve) contare più dell’azione. Abbiamo costruito stili di vita insostenibili: per noi, per l’ambiente, per le comunità, per il lavoro.
Mentre ordiniamo una pizza dal divano, milioni di persone non hanno accesso all’acqua potabile. Il disequilibrio è evidente. E riguarda anche come stiamo consumando risorse e territori.
C'è una soluzione? Forse sì: le nuove generazioni.
Noi, troppo spesso, vogliamo solo crescere in fatturato, vendere di più, lavorare di più, comprare di più. Le nuove generazioni, invece, stanno mostrando un sentimento diverso: condividono, si informano, si organizzano, viaggiano, agiscono.
Forse è lì che dobbiamo guardare. Forse è da lì che possiamo imparare.
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