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Appartenere a qualcosa: da Woodstock a oggi, la fame di comunità

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Appartenere a qualcosa

Siamo alla disperata ricerca di comunità, di luoghi e di ideali. Lo eravamo ieri, lo siamo ancora oggi. Perché appartenere a qualcosa è un bisogno profondo, radicato nella nostra natura.

Il 15 agosto 1969, nella piccola Bethel, nello Stato di New York, prese vita un evento destinato a segnare un'epoca: il Festival di Woodstock. "3 Days of Peace & Rock Music". Un inno alla libertà, alla pace, alla gioia collettiva. Una rivoluzione culturale accompagnata da artisti leggendari come Jimi Hendrix, The Who e Joe Cocker.

Quel che era nato come un festival di provincia, accolse oltre 400 mila giovani. Il traffico bloccò le autostrade, il tempo si fermò. John Sebastian lasciò il palco per correre dalla moglie che stava partorendo; i The Who iniziarono a suonare alle 4 del mattino, dopo tensioni con gli organizzatori. In quei tre giorni si verificarono due morti e, pare, anche due nascite. La vita e la morte si intrecciavano nel fango e nella musica, tra luci psichedeliche e ideali incrollabili.

Il giornalista Barnard Collier del New York Times insistette per raccontare il concerto come un momento di "pace e amore", contro l'intento dei suoi caporedattori che lo volevano descrivere come "catastrofe sociale". Non tutti ricordano Woodstock come un'utopia. Il produttore Eddie Kramer, in un'intervista a Panorama.it, lo descrisse come "un covo di 500 mila strafatti". Ma forse è proprio questo il punto: Woodstock è stato un caos creativo, un momento irripetibile di perdita collettiva del controllo, un atto rivoluzionario d'appartenenza.

Chi c'era, c'era davvero. Occhi lucidi, cuori aperti. Volontà di condividere, di esserci. Anche con le contraddizioni, con l'eccesso, con gli errori. Quei ragazzi hanno vissuto in pieno. Hanno cambiato la cultura, l'industria, la tecnologia. Alcuni, dopo anni di LSD, hanno creato prodotti che oggi fanno parte della nostra quotidianità. C'è perfino un curioso articolo in cui l'inventore dell'LSD chiede a Steve Jobs quanto le sostanze psichedeliche abbiano influenzato la nascita di Apple.

Provate a immaginare cosa si respirava allora. L'aria satura di rivoluzione, amore, ribellione, sogno.

E oggi? Oggi ci mancano quegli occhi. Ci manca la voglia di essere parte di qualcosa. Ci manca l'entusiasmo del contributo, la voglia di sollevare il tavolo, di dire "ci sono anche io". Vogliamo ancora comunità, anche se non sempre sappiamo come cercarle. Vogliamo condividere, appartenere, essere presenti.

Perché siamo fatti per appartenere. Nasciamo per creare legami. Siamo comunità dentro comunità. Ci nutriamo dei valori degli altri per costruire i nostri.

E se oggi le nuove generazioni sembrano disorientate, se hanno gli occhi un po' più spenti, è nostra responsabilità tener viva la fiamma. Lasciar loro spazio per credere. Dobbiamo permettergli di sentire, di vivere, di costruire. Di appartenere.

Perché se anche uno solo di loro smetterà di crederci, noi saremo perduti. E forse, in parte, lo siamo già.

Abbiamo bisogno di comunità. Di identità di marca autentiche. Di relazioni vere. Di legami forti.

Dobbiamo continuare a costruire. Insieme.

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