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Il marketing ha dimenticato il bello? Riflessioni tra emozioni, prodotti e poesia

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Viviamo in un'epoca in cui il funzionale ha preso il sopravvento sul bello. Ma siamo davvero sicuri che ciò che vuole il marketing sia ciò che desiderano davvero le persone?

Le persone non sono algoritmi. Non sono schede tecniche. Sono una somma disordinata di emozioni, errori, intuizioni, sogni e sensazioni. Anche i loro acquisti, le loro scelte quotidiane, riflettono questa complessità. Eppure, il marketing moderno sembra spesso dimenticarlo.

Un tempo, la cultura del bello era centrale. Pensiamo al Rinascimento: le cose erano belle, importanti, comprensibili. L’arte, l’architettura, persino gli oggetti d’uso quotidiano erano progettati per emozionare.

E se a Brunelleschi avessero chiesto di progettare una cupola ottimizzata per budget, funzionalità ed efficienza? Probabilmente non ci avrebbe regalato un capolavoro senza tempo.

Nel tempo, il funzionale ha sostituito il bello. Il marketing ha contribuito a questa trasformazione. Ha introdotto nella nostra quotidianità concetti chiari, oggettivi, facili da raccontare: "zero calorie", "zero emissioni", "basso contenuto di grassi". Tutto molto razionale. Tutto molto vendibile.

Ma il bello richiede impegno. Raccontare la bellezza di un prodotto è più difficile che elencarne le caratteristiche tecniche. Richiede cultura, sensibilità, empatia. Serve raccontare ciò che un prodotto provoca, non solo ciò che fa. Serve un marketing che sappia parlare alle emozioni, non solo alle specifiche.

Un'azienda che produce tavoli in massello, ad esempio, saprà raccontare con precisione il tipo di legno, la durezza, la durata. Ma sarà in grado di descrivere cosa si prova nel sedersi ogni sera a quel tavolo, cosa significa per una famiglia riunirsi intorno ad esso?

Ci hanno educati a pensare ai prodotti in termini di performance. Ci hanno convinti che il marketing dovesse semplificare, ridurre tutto a concetti immediatamente spendibili. Ma questa è una visione limitante. Una narrazione che trascura il fatto che le persone, nella loro essenza, sono tutto tranne che funzionali.

Il marketing dovrebbe fare un passo indietro. Tornare a essere anche poesia. A raccontare sfumature, emozioni, esperienze. Perché il mondo non è fatto solo di 0 e 1. È fatto di lettere, di immagini, di suoni, di sensazioni a volte difficili da spiegare.

Quel "consumatore razionale" di cui parlano i manuali di economia non è mai esistito. Era solo una semplificazione per rendere la teoria economica più gestibile. Ma chi compra lo fa anche per piacere, per affezione, per estetica. E questa parte del processo è spesso invisibile ai radar delle analisi di mercato.

Semplificare è comodo, certo. Ma è pericoloso quando toglie profondità al pensiero, quando ci impedisce di vedere la ricchezza dell’esperienza umana.

E allora: siamo sicuri che quello che vuole il marketing sia davvero quello che vogliono le persone?

E se, invece delle etichette, desiderassero storie? E se volessero sentirsi dire che Coca-Cola fa famiglia, più che "Zero Zuccheri"? E se cercassero prodotti fatti da persone appassionate, aziende che fanno ancora cose belle, con cura e con amore?

Forse aveva ragione Oscar Wilde quando scriveva: “Le cose belle della vita o sono illegali, o sono immorali, o fanno ingrassare”. E forse è proprio in questo paradosso, in questa imperfezione meravigliosa, che si nasconde ciò che le persone cercano davvero.

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