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Value economy: ripensare la definizione di valore

Con alcuni colleghi e colleghe, ormai da diversi anni, abbiamo iniziato a chiederci se la crescita basata esclusivamente sul profitto fosse la strada giusta da percorrere, per noi professionalmente e per i nostri clienti.

La conclusione è che — secondo noi — il profitto non può essere più una priorità, né tanto meno ricercare ferocemente la crescita continua.

Primo, perché questa è la filosofia imprenditoriale che ci ha condotti esattamente questo momento storico: guerre, pandemie, depauperamento del territorio, sfruttamento delle risorse, della manodopera, gender gap, greenwashing, fast fashion, low quality, ect. La lista potrebbe essere infinita. Vi sembrano cose scollegate tra di loro? Non penso proprio, pensateci bene dove ci ha condotti il Dio denaro e la sete di ricchezza.

Non ci sono ad oggi vantaggi sostanzialmente positivi di questo turbo-sviluppo e questo è evidente. Ci sono alcuni vantaggi — a fronte di molti svantaggi — che solo una piccola parte della popolazione può godere: l’80% delle persone, nel mondo, soffrono la povertà, la mal nutrizione, l’analfabetizzazione.

Punto due, sinceramente, non crediamo che quello attuale — diffuso e consolidato — sia un modello di sviluppo sostenibile per l’intero genere umano, replicabile, scalabile ma soprattutto bilanciato.

Investire su un unico driver di sostenibilità, il profitto e la crescita, a scapito di tutto il resto è una follia strategica: salta il profitto, la tua azienda affonda. Punto. La storia passata e recente ce lo sta raccontando.

Investire nella cultura dei propri dipendenti, in una più equa distribuzione dei profitti su tutta la catena del valore, tra i fornitori, il territorio, l’organizzazione aziendale; investire sulla propria reputazione aziendale; significa crescere trasversalmente, distribuendo su più drivers il proprio sviluppo.

Una crescita distribuita su più asset, alcuni quantificabili economicamente (come il profitto), altri più intangibili come il benessere dei dipendenti, il rispetto dell’ambiente e delle risorse del territorio sul quale l’azienda insiste. O ancora la qualità delle relazioni tra colleghi, fornitori, stakeholder, ect.


Mantenere uno standard di qualità sui prodotti, che non richieda del finto story telling e del fake advertising per essere venduti.

Investire nel bello, nel benessere, in una cultura aziendale che porti valore al mercato e alla comunità.

Una vera e propria economia del valore, una value economy.

Già, il valore: è curioso, che questo termine sia quasi sconosciuto ai motori di ricerca, sembra quasi che il termine “valore” faccia paura, mentre profitto sia apparentemente più comprensibile.
Il mercato sta già ripensando la definizione di valore, in parte anche grazie alle nuove generazioni che “pur sfuggenti come le pantere” stanno dando nuova voce ed identità tramite i loro consumi e le loro scelte.

Le aziende tuttavia faticano a comprendere quale nuovo ruolo potrebbero avere in questo mondo a più dimensioni — spaziali, temporali e sensoriali — dove non vince né il più forte, né chi vende di più, ma chi distribuisce più valore a tutti: alle persone, alla comunità, all’ambiente.

Ed il profitto, dove lo mettiamo? Bhe, dove volete… Noi non ci crediamo più al profitto a tutti i costi, non può essere un driver di crescita per nessuno.

In passato non ci ha creduto neanche Patagonia, trenta anni fa. Non ci ha creduto Brunello Cucinelli. Non ci stanno credendo alcune aziende visionarie, indipendentemente dalla dimensione. Non ci stanno credendo le Società Benefit. Non ci sta credendo più neanche il mercato.

É necessario ri-costruire una nuova economia che possa essere raccontata con orgoglio, che possa essere praticata, tramandata, sostenuta.
Un’economia che valorizzi le persone e le relazioni, e non semplicemente il successo o il profitto.
Un’economia che valorizzi il tempo e non il numero di contatti o i likes.
Un’economia improntata sul valore, in senso lato.

Un’economia fatta di persone, per le persone.
Ripartiamo da qua.
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