Negli ultimi anni, il termine “co-design” è stato tirato da tutte le parti, lucidato e rilanciato come soluzione magica per progetti più inclusivi, processi più democratici, esperienze più umane. Se ne parla in conferenze, lo si inserisce nei pitch, lo si propone nei bandi. Eppure, più viene usato, più rischia di perdere senso.
È un po’ come quando una parola viene ripetuta troppe volte: all’inizio suona potente, poi comincia a sembrare vuota, infine fastidiosa. Ed è per questo che ci ha colpito la lettura dell’articolo “What is co-design?” di Dr Melis Senova, pubblicato su Beyond Sticky Notes. Una riflessione lucida e coraggiosa, che riporta il co-design alla sua natura più radicale: non come strumento, ma come posizione. Non come metodo, ma come atto politico.
Perché il co-design autentico non è un esercizio di facilitazione, non è un brainstorming con gli stakeholder, non è nemmeno una mappa empatica disegnata a più mani.È una pratica che ci obbliga a rimettere in discussione le strutture di potere in cui operiamo. Ci chiede di guardare in faccia le disuguaglianze. Di fare spazio dove, di solito, non c’è spazio per nessuno al di fuori dei “decisori”.
Co-design significa redistribuire il potere decisionale. Significa che non siamo noi a “portare le persone dentro il processo”, come se fossero esterne. Le persone sono il processo. E questo comporta una profonda trasformazione non solo nei progetti, ma in noi stessi.
Perché, ammettiamolo, per quanto ci piaccia dire che “coinvolgiamo le comunità”, spesso il coinvolgimento è una messinscena. Invitiamo le persone quando tutto è già stato deciso. Chiediamo input che non modificheranno nulla di sostanziale. Scegliamo i partecipanti in base alla loro capacità di “collaborare bene”, cioè di non mettere troppo in discussione l’impianto. E se qualcuno alza la voce o mette in crisi il processo, lo consideriamo un problema da gestire, non una voce da ascoltare.
Melis Senova ci mette davanti a un bivio: o continuiamo a praticare un co-design cosmetico, fatto per rassicurare clienti e istituzioni, oppureaccettiamo la complessità e il disagio che derivano da un co-design autentico. Un co-design che ci espone, che ci chiede di non essere neutrali, che ci invita ad abbandonare il controllo.
È una lezione che tocca da vicino chi, come noi in Marketing Toys lavora nel marketing, nella comunicazione, nell’innovazione. Troppo spesso ci aggrappiamo alla narrazione dell’inclusione come se bastasse dichiararla per realizzarla. Ma l’inclusione non si dichiara, si pratica. E praticarla davvero significa creare le condizioni per cui anche chi non parla la nostra lingua — letteralmente o metaforicamente — possa contribuire in modo equo.
Nel co-design, questa pratica si traduce in gesti concreti: rinunciare al nostro bisogno di avere “la risposta giusta”, accettare l’ambiguità, riconoscere i nostri privilegi. Significa non solo facilitare uno spazio, ma chiedersi chi lo possiede, chi lo legittima, chi ne è escluso.
E significa anche, a volte, lasciare che siano gli altri a guidare, a cambiare le domande, a ridisegnare le cornici. È un lavoro che richiede tempo, fiducia, cura. Non produce risultati immediati, non sempre è misurabile. Ma ha un valore trasformativo che va ben oltre i deliverable di un progetto.
In fondo, non è così diverso da quello che ci chiede la complessità contemporanea: non risposte facili, ma relazioni più profonde. Non soluzioni chiavi in mano, ma capacità di stare nel processo. E questo vale per il design come per il marketing, per le policy come per la tecnologia.
Il co-design, quando è reale, ci cambia. Non cambia solo quello che facciamo. Cambia il modo in cui lo facciamo. E soprattutto, cambia chi pensiamo di essere all’interno dei progetti.
E allora forse, la domanda vera non è “come facciamo co-design?”, ma “siamo disposti a farci mettere in discussione dal processo stesso?”. Siamo pronti ad ascoltare senza difenderci? A lasciare andare l’idea di essere noi a guidare?
Sono domande scomode, ma necessarie. Perché se il cambiamento che vogliamo è reale, deve passare anche da qui. Dall’accettare che non sempre saremo al centro. Dall’imparare a decentrarci, a fare spazio, a fare silenzio.
E in quel silenzio, se siamo fortunati, potremmo sentire qualcosa di più vero. Un nuovo modo di progettare, certo. Ma anche — e soprattutto — un nuovo modo di essere con gli altri.